La ribellione dei Bersaglieri e l'intervento della Regia Guardia - Prima parte
L’Albania
La guerra
Nel 1914, interpretando correttamente l’articolo 4 del Trattato stipulato con gli Imperi Centrali nel 1882, rinnovato nel 1887, che prevedeva l’entrata in guerra solo nel caso in cui uno degli Stati firmatari fosse stato aggredito, l’Italia si dichiarò neutrale all’atto dell’aggressione dell’Austria nei confronti della Serbia e della conseguente conflagrazione della Grande Guerra. In realtà, il Governo del Paese stava prendendo tempo per individuare il contendente che avrebbe vinto il conflitto. Contemporaneamente, cercava di porre rimedio, in tempi rapidi, alla sua incapacità di sostenere un conflitto moderno di elevatissimo livello tecnologico, intavolando segretamente una trattativa con gli emissari dell’uno e dell’altro schieramento, tentando di alzare il prezzo della propria entrata in guerra, il tutto all’insaputa dell’opinione pubblica italiana. Una corrente pervasiva della élite politica e intellettuale, d’altra parte, intravide nell’entrata in guerra, oltre all’opportunità di un completamento geografico delle terre ‘irredente’, anche la consacrazione dello Stato italiano, finalmente rispettato al cospetto delle Nazioni europee.
Alla fine l’offerta degli Imperi Centrali (territori in Trentino o in Venezia Giulia), fu sopravanzata da quella della Triplice Intesa (Trentino, Trieste e l’Albania), alla ricerca in tempi strettissimi di nuovi alleati, giacché l’Impero Zarista- con interessi sicuramente divergenti dall’Austria nei Balcani -aveva subìto tra la primavera e l’estate del 1915 una solenne sconfitta in Galizia.
Con il Patto di Londra, firmato 26 aprile 1915 segretamente, l’Italia s’impegnava, quindi, ad entrare in guerra a fianco dei Paesi della Triplice Intesa entro un mese dalla firma, in cambio del Trentino, dell’Istria, di Trieste e di buona parte della Dalmazia. Si sarebbe, inoltre, spartita, insieme a Grecia, Serbia e Montenegro, anche l’Albania. Verso la fine del 1917, per screditare l’operato dello Zar di Russia, i retroscena degli accordi segreti di Londra vennero riportati sul giornale Izvestija dai capi dei Soviet al potere dopo la Rivoluzione bolscevica del marzo precedente.
Alla fine, dopo le "radiose giornate di maggio" (così ribattezzate dagli interventisti) l’Italia entrò in guerra conseguendo, dopo alterne vicende, la vittoria, seppure a caro prezzo. Il nostro Paese, pur se vittorioso, uscì prostrato dal conflitto, devastato economicamente e moralmente; la sua incapacità a riconvertire l’imponente macchina bellica industriale, lo fece sprofondare in una spaventosa crisi economica con il conseguente aumento dell’inflazione a scapito delle classi popolari che vedevano eroso il loro già misero salario. Si erano arricchiti solo alcuni intraprendenti "pescecani" che si erano procacciati ingenti profitti di guerra; tutti gli altri, invece, erano sopravvissuti a stento. Da ciò scaturì una serie di rivendicazioni sociali (aumento dei salari, diminuzioni del prezzo dei generi di prima necessità, distribuzione delle terre ai contadini) che diedero luogo a manifestazioni e scioperi d’ingenti masse di contadini e salariati.
Finita la guerra, forte degli accordi di Londra, il Capo del Governo Vittorio Emanuele Orlando, per ottenere quanto stabilito, si recò a Parigi, dove subì, tuttavia, l’umiliazione di Fiume che, seppure in passato italiana e reclamata energicamente, fu assegnata alla Croazia, costringendolo ad abbandonare per protesta Versailles, sede dei negoziati di pace. La diplomazia italiana, ripresa dopo poco la via di Parigi, dovette, quindi, tollerare la malcelata ostilità del Primo Ministro francese Clemenceau e l’ingerenza, durante le trattative di pace, del Presidente americano Wilson che, non firmatario del Patto di Londra e forte del notevole apporto dato dal suo esercito durante la parte finale del conflitto, si dichiarò favorevole all’autodeterminazione dei popoli e, pertanto, contrario alle occupazioni di Stati Sovrani. Per questi motivi l’Italia e la Grecia stipularono, il 29 giugno 1919, patti segretissimi con i quali si accordavano per sostenersi reciprocamente al tavolo delle trattative per rivendicare quanto sarebbe dovuto spettare loro.
Il sostanziale mancato riconoscimento del contributo italiano alla vittoria sollevò un’ondata di delusione e sdegno travolgendo il governo Orlando-Sonnino, che si dimise. Gli successe, il 23 giugno 1919, quello presieduto da Francesco Saverio Nitti, che tra le sue priorità individuò il contenimento delle ingenti spese militari correnti, affidando al Generale Alberico Albricci, Ministro della Guerra, l’incarico di operare un drastico ridimensionamento dell’Esercito tagliando, accorpando e ricucendone l’organico. Il Generale Albricci stabilì per il Regio Esercito, che durante il conflitto aveva visto mobilitati oltre cinque milioni di italiani e al momento dell’armistizio con l’Austria ne contava 3.044.414, una drastica riduzione a circa 210 mila unità.
Tale smobilitazione procedette all’inizio molto velocemente poi, per problemi contingenti, assai più a rilento. Di fatto, nonostante le indicazioni dei Governi, che si succedettero in quel periodo, l’esiguo numero delle forze di Polizia sul territorio non consentì al Regio Esercito il completo ritiro in quanto il suo impiego, più frequentemente di quanto era accaduto prima del conflitto, f u usuale in situazioni di costante pericolo di sovversione dell’ordine pubblico, durante manifestazioni e dimostrazioni, spesso molto violente, attuate da masse di lavoratori e braccianti mobilitate sul territorio armate e organizzate politicamente che rivendicavano terre da coltivare, oltre a condizioni lavorative ed economiche migliori. Tali frequentissimi scioperi, sfocianti spesso in sanguinosi conflitti a fuoco e violenze di piazza, oltre alla complessa evoluzione geo-politica di alcuni Stati europei, non consentirono la completa smobilitazione dell’Esercito, tanto che nel 1920 dovevano essere congedati gli ultimi scaglioni richiamati nel 1918. Le preoccupazioni del governo per un ulteriore turbamento dell’ordine interno aumentarono con l’approssimarsi delle consultazioni elettorali, fissate per il 16 novembre, tanto da richiamare in Italia con urgenza interi reparti impegnati all’estero.
Se da una parte l’impiego delle truppe, nel sempre poco gradito servizio di ordine pubblico, fu certamente necessario, dall’altra finì per rivelarsi senz'altro pericoloso, giacché i militari, avvicinati da elementi socialisti o anarchici, tendevano a fraternizzare coi protestatori. Proprio l’Esercito "macchina poderosa", fino ad allora, baluardo dello Stato Liberale, si dimostrò poco affidabile anche a causa della debolezza e lo scarso prestigio dei suoi vertici, come la secessione fiumana di D’Annunzio ancora in corso avrebbe dimostrato. Furono proprio il non totale affidamento offerto dai reparti militari, composti da elementi stanchi e desiderosi di tornare finalmente ai loro affetti ed il concreto rischio di sovversione, a spianare la strada alla militarizzazione della Polizia e alla conseguente istituzione della Regia Guardia per la Pubblica Sicurezza.